Non avevo ancora compiuto due anni, quando nel luglio del 1969 l’uomo per la prima volta mise piede sulla luna. E pensare che tutto era iniziato solo pochi anni prima. Nel 1962 il presidente degli Stati Uniti J. F. Kennedy aveva promesso alla nazione, e al mondo, che entro il decennio l’uomo sarebbe andato sulla luna. Che sogno! E che visione.
Questo evento epocale ci offre due insegnamenti: il prima è che avere dei competitor è un bene, quando decidi di accettare la sfida. Se gli altri ottengono un risultato – la Russia sovietica stava lavorando duramente per poter esplorare lo spazio – tu applaudi, e poi fai meglio. Non che credo che gli USA abbiano applaudito in piena guerra fredda, certamente si sono impegnati molto per fare meglio. Il secondo insegnamento è la dimostrazione pratica che un forte perché, supera qualsiasi come.
L’allunaggio mi ha fatto sognare per tutta l’infanzia. Questi eroi dello spazio che raggiungevano il cosmo su dei razzi erano dei miti per me. E poi gli anni ’70 ci hanno dato Space Oddity e Ziggy Stardust del grande Bowie, l’epopea di Dune arrivata in Italia nel 1973 e il viaggio di Guerre Stellari del 1977. Io sognavo di fare l’astronauta, ed è rimasto solo un sogno. Ma grazie alla forza di quel desiderio sono riuscito a ottenere un altro risultato, alla portata di pochi: fare un volo a gravità zero alla NASA.
Ed eccomi qui nel 2019, a 50 anni dall’allunaggio, che realizzo un altro grande desiderio: conoscere e lavorare con uno dei più grandi astronauti italiani, Paolo Nespoli. Metto a sua disposizione con onore e piacere lo spazio del mio blog “We can be Heroes” perché ci parli della sua straordinaria esperienza. Buona lettura,
Claudio.
Sono cresciuto negli anni 60 e quando la missione Apollo 11 ha effettuato l’allunaggio avevo da poco compiuto dodici anni. Quell’evento mi colpì in tutta la sua grandezza. L’uomo metteva piede sulla luna dopo aver attraversato lo spazio ignoto su di un razzo. Era qualcosa di incredibile; eppure l’incredulità lasciava spazio a poco a poco alla certezza nel racconto dei giornali, della radio e della tv. Era vero, era tutto vero: dopo anni e anni di sforzi immani, l’uomo metteva piede sulla luna.
Ecco perché allora gli astronauti erano visti come dei superumani, capaci di sfidare quello spazio ignoto. Avevano nervi d’acciaio e capacità soprannaturali. Erano preparati e sapevano rispondere nel modo giusto e nel giusto momento a ogni evento: previsto o imprevisto che fosse. Sfidavano il pericolo estremo sprezzanti del pericolo personale in nome del raggiungimento di un obiettivo impossibile, a beneficio di tutta l’umanità.
Oggi che abbiamo sempre in tasca uno smartphone con una capacità di calcolo enorme, non riusciamo a capire davvero fino in fondo cosa voleva dire anche solo venti o trenta anni fa andare nello spazio. Figurarsi cinquanta anni fa, con mezzi quasi rudimentali, con uno storico di esperienze molto limitato e una quantità di incertezze soverchiante. Questi nobili cavalieri-supereroi con capacità fenomenali affrontavano queste sfide così grandi che era impossibile non sognare di essere come loro.
E difatti, come tanti bambini di allora, anch’io pensavo che sarebbe stato bello se da grande fossi potuto diventare uno di loro. Da allora ho impiegato quasi 30 anni e ogni fibra del corpo per poter coronare il sogno di diventare astronauta e quasi 40 anni per andare finalmente nello spazio. Ho avuto la fortuna di crescere e formarmi alla scuola dei più grandi al centro NASA di Houston. Ho vissuto negli uffici accanto ai loro, imparato il loro gergo, respirato la loro aria. Ho partecipato alle stesse riunioni e, alla fine, ho ricevuto l’onore e il privilegio di poter indossare sulla giacca la stessa spilla d’oro, il simbolo che li contraddistingueva. Proprio lì alla base NASA/Houston ho avuto l’occasione di conoscere di persona il grande Neil Amstrong.
Era il 1999 e lui era nel sito per le visite mediche annuali. Gli chiesero di venire a parlare un paio d’ore alla nuova classe di astronauti in addestramento (la nostra) e accettò di buon grado. A noi dissero che si trattò di un evento eccezionale per via dei suoi tanti impegni. Avremmo dovuto lasciarlo parlare riservando le domande per la fine; e solo se ce ne fosse stato tempo. E poi si raccomandarono: in ogni caso, niente foto o autografi!
A quel punto l’emozione e l’impazienza salirono alle stelle. Neil Armstrong si presentò di fronte a noi e noi tutti immaginavamo un racconto sull’allunaggio. Invece cominciò a parlare dell’X-15, il progetto che alla fine degli anni 50 ha portato l’aviazione a rompere il muro del suono. Era chiaramente fiero di aver partecipato a quel progetto. Ci raccontò storie e aneddoti incredibili su come si erano trovati di fronte a situazioni imprevedibili e come le avevano superate dando fondo a tutte le loro capacità di piloti, unite alle analisi e alle intuizioni degli ingegneri, lui a pieno titolo uno di loro. Ci parlò della progressione dei voli che li portavano sempre più in alto e sempre più veloci. Il punto più alto del suo strabiliante racconto – che ci tenne incantati e rapiti per quasi tutte le due ore a sua disposizione – lo raggiunse quando ci parlò in dettaglio di uno di questi voli. Accadde tutto dopo che ebbe stabilito il record d’altezza. In fase di rientro volle testare le capacità del sistema di controllo del velivolo. Questo rispose in modo del tutto inaspettato: invece di scendere riprese a guadagnar quota, quasi fuori controllo, portandolo altissimo nel cielo sopra la base di Edwards.
Neil si trovò nell’impossibilità di atterrare sull’unica pista possibile. Per descriverci le forze in gioco sull’aereo in quel momento, si girò e fece un disegno su di una di quelle lavagne a fogli che si trovano spesso all’interno delle aule di studio e che qualcuno aveva opportunamente preparato per l’occasione. Con l’aiuto di questo schizzo descrisse nei minimi dettagli come, improvvisando sul momento, inventò una manovra complessa mai tentata prima. Con questo lampo di genio riuscì a tornare in controllo del mezzo e farlo cabrare verso Edwards e atterrare come se nulla fosse successo. Non senza aver stabilito anche il record di durata per un volo con l’X-15!
In quel momento si interruppe di parlare e vidi nitidamente i suoi occhi brillare; il suo sorriso era di chi andava fiero di aver fatto la differenza. Poi, gettando uno sguardo all’orologio e vide che non era rimasto molto tempo. Tornò a rivolgersi a noi e disse semplicemente qualcosa del tipo: “Dopo il progetto X-15 ho lavorato per il progetto Apollo della NASA, progetto che ci ha portato sulla Luna. Mi sono rimasti una decina di minuti. Avete domande?” Ci impegnammo al massimo per fargli dire tutto il possibile in quei dieci minuti. Ci confessò che secondo lui il Progetto Apollo fosse un progetto complesso e ambizioso sostanzialmente basato su un grosso lavoro corale dove ognuno aveva un ruolo importante. Questa umiltà mi colpì: il grande Neil Armstrong considerava il suo apporto paragonabile a quello degli altri e provava un certo fastidio quando i media o le persone comuni semplificavano il tutto facendo sembrare che sulla luna ci fosse andato da solo.
Fra di noi, qualcuno molto coraggioso, capendo che il suo tempo a nostra disposizione era scaduto, si provò nel domandargli se potevamo fare una foto di gruppo. Cosa che ovviamente accettò di fare ben volentieri. Quando uscì dall’aula avemmo come l’impressione che uscisse ben più di una persona e con lui varcò la soglia dell’aula la storia in persona. Subito dopo di lui, tutti uscirono dall’aula. Solo la persona che aveva opportunamente preparato la lavagna a fogli rimase lì a guardare quello schizzo disegnato da Neil Armstrong. Avvicinandosi a quel disegno storico ebbe cura di arrotolarlo e conservarlo con il rispetto, l’ammirazione e la devozione che i grandi meritano per le loro – piccole o grandi – opere. Oggi quel foglio è ancora gelosamente custodito, nella mia casa. Non fui mai più felice come in quel momento di aver avuto l’idea di preparare quella lavagna. Oltre all’orgoglio, alla passione e alla gratitudine per aver preso parte a quel programma e aver avuto la possibilità di esplorare lo spazio, riconosco oggi come allora il grande valore umano e professionale di quella generazione di astronauti.
Facendo mie le parole che pronunciò il presidente statunitense John Kennedy nel 1962 quando lanciò la corsa allo spazio ho la certezza che “più cresce il nostro sapere, più evidente ci appare la nostra ignoranza”. E la lezione di Neil Armstrong – come di tutti quelli che insieme a lui lavorarono al progetto Apollo – fu proprio questa enorme fiducia nella scienza e nel valore della scoperta. Ciascuno si mise a disposizione per fare la sua parte e tutti insieme per andare oltre le capacità dei singoli, per ottenere un risultato mai avuto prima di allora. Tutti infatti erano consapevoli che era impossibile prevedere l’imprevedibile e che ci sarebbero state delle sfide da affrontare, come singoli e come squadra. Proprio per questo ognuno fu pronto a fare la sua parte, a mettersi a disposizione degli altri in nome di qualcosa di più grande. Qualcosa di umano che oggi appartiene, in forma di sapere, a tutta l’umanità.
Paolo Nespoli